MOLA DI BARI (Bari) – «Un fatto ignobile, uno dei tanti petali di questo fiore malato chiamato Italia». Così Carmelo Bene apostrofò il processo per plagio all’intellettuale Aldo Braibanti, conclusosi cinquant’anni fa con una clamorosa condanna per la “diversità” sessuale dell’imputato. Un caso dimenticato della nostra storia più recente che la Compagnia Diaghilev, a cinquant’anni dal ’68, ha fatto diventare «Il caso Braibanti», spettacolo in scena al Teatro van Westerhout di Mola di Bari, da mercoledì 5 a venerdì 7 dicembre alle ore 21 e sabato 8 dicembre alle ore 19, dopo le felici e recenti rappresentazioni al Teatro Franco Parenti di Milano e al Teatro Torlonia per la Stagione del Teatro di Roma.
Delicato esempio di teatro civile realizzato con poesia e tenerezza, senza retorica e senza alcun intento didascalico, la pièce di Massimiliano Palmese, interpretata da Fabio Bussotti e Mauro Conte per la regia di Giuseppe Marini (Mauro Verrone esegue dal vivo musiche di sua composizione), racconta la storia dell’artista-filosofo processato con l’accusa morale di omosessualità in uno dei casi giudiziari più seguiti e dibattuti nell’Italia di fine anni Sessanta. Un processo finito con una condanna di nove anni di reclusione basata su un’improbabile imposizione delle proprie idee e personalità sul ventunenne Giovanni Sanfratello.
La denuncia contro il piacentino Braibanti, ex-partigiano torturato dai nazifascisti, venne depositata nell’ottobre del 1964 alla Procura della Repubblica di Roma «per aver assoggettato fisicamente e psichicamente» Sanfratello. In realtà il ragazzo, in fuga da una famiglia tradizionalista e bigotta, aveva deciso di seguire le sue inclinazioni ed era andato a vivere a Roma con Braibanti. Non riuscendo a separare la coppia, il padre di Giovanni denunciò l’artista-filosofo con l’accusa di plagio.
Il processo a Braibanti, scomparso poco più di quattro anni fa, si aprì il 12 giugno 1968, mentre infiammava la contestazione e i giovani di tutto il mondo chiedevano a gran voce più ampie libertà. In molti denunciarono lo scandalo di un processo montato ad arte dalla destra più reazionaria del Paese in combutta con esponenti del clero e della «psichiatria di regime». Dalle colonne dei giornali in favore di Braibanti intervennero Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Umberto Eco, Marco Pannella, Cesare Musatti, Dacia Maraini e, per l’appunto, Carmelo Bene. Ma i loro appelli caddero nel vuoto.
«Il processo Braibanti – dice Palmese – fu una vicenda medioevale. Nel ’68, mentre il mondo si trasformava in un luogo meno repressivo, in Italia bastò una “cricca” di avvocati, di psichiatri e di preti, per trasformare una storia d’amore in un “Romeo e Giulietta” omosessuale, in cui i padri per punire i figli non esitano a denunciarli per “plagio” o a sottoporli a coma insulinici ed elettrochoc. E, se ancora oggi nel nostro Paese le stesse cricche politiche, reazionarie e ipocritamente bigotte, si oppongono a una seria legge contro l’omofobia o alle unioni civili per i gay, vuol dire che “Il caso Braibanti” non è una pagina del passato ma storia presente che può e deve, ancora, farci indignare».
Il testo dello scrittore e drammaturgo napoletano (finalista al Premio Strega 2006 con «L’amante proibita») è basato sugli atti del processo e su articoli di giornale. «Non ho voluto inventare perché mi sembrava si dovesse trovare solo il giusto tono, un equilibrio tra satira di costume e dramma psicologico, per tenere insieme le parole degli avvocati, così violente, insieme alle loro tesi, così ridicole», racconta Palmese, rimasto “divertito” dalla lettura degli interrogatori e delle arringhe e agghiacciato dalle dichiarazioni omofobiche dei cosiddetti «periti» e dalle cartelle firmate dagli «specialisti in malattie nervose» delle cliniche dove fu rinchiuso il giovane Giovanni Sanfratello.