LECCE – Venerdì 1 novembre prende il via dalle Officine Cantelmo di Lecce, con uno showcase in apertura del concerto di Giorgio Poi, il tour pugliese di presentazione di Wabi Sabi, disco d’esordio di Luvaq. Il progetto nasce dall’incontro tra il rapper e produttore Manu PHL aka Emanuele Flandoli e il chitarrista Naima aka Emanuele Perrone affiancati dal bassista Anoir Ben Hadj Amara. Prodotto dall’etichetta indipendente La Grande Onda, fondata da Piotta nel 2004, con il sostegno di Puglia Sounds Record 2019 (Regione Puglia – Fsc 2014/2020 – Patto per la Puglia – Investiamo nel vostro futuro), Wabi Sabi, che nella cultura giapponese indica la bellezza insita nella transitorietà delle cose, contiene nove brani originali, scritti con una chitarra e un quaderno.
Dopo la breve esibizione del 1 novembre (ore 21:30 – ingresso 10 euro – prevendite circuito vivaticket), prima del cantautore Giorgio Poi per SEIYoung (rassegna dedicata a giovani band e artisti under 35, promossa da CoolClub, in collaborazione con il festival Sud Est Indipendente, con il sostegno di Mibact e di Siae nell’ambito del programma “Per chi crea”), il tour di Luvaq ripartirà il 14 novembre (ore 22:30 – ingresso libero) al Jungle – Parco Raho di Nardò, tornerà il 19 novembre (ore 22:30 – ingresso libero) proprio sul palco delle Officine Cantelmo e approderà, in attesa di nuove tappe, il 29 novembre (ore 22:30 – ingresso libero) nello Spazio di interazione culturale Dunya di Lecce.
Quelle di Luvaq sono canzoni d’amore e di nostalgia che raccontano l’ansia sottile del tempo che non si ferma mai, i sogni che sbiadiscono lentamente e l’amore che prova a essere eterno, come un bacio fra le macerie della crisi post-industriale. Il producer e il chitarrista costruiscono un sound sospeso tra feeling acustico e attitudine urban, grazie all’uso di batterie elettroniche e suoni campionati; un fragile cantautorato in bilico tra l’itpop e l’underground hip-hop, fra poesia e autotune, fra chitarre acustiche e drum machine. «L’album nasce da un nodo alla gola, da quella sensazione di malinconia per un passato che non può più tornare, l’ansia per un futuro sempre più incerto, e dalle cicatrici sotto la pelle, quelle procurate dai rapporti finiti, dalle persone che non ci sono più, dall’impatto dei sogni adolescenziali con l’asprezza del mondo reale», racconta Manu Phl. «Ma c’è anche la consapevolezza che quelle cicatrici sono bellezza, sono la testimonianza che il tempo vissuto è stato intenso, sofferto ma pieno di significato».
Manu PHL è sempre stato un rapper atipico: testi lontani dai cliché rap, fra il cantautorale e l’ironico, e un sound ibrido, che mescola funk, hip-hop, pop, reggae, elettronica. Premiato già nel 2009 come miglior nuovo rapper italiano (Da Bomb Underground Skills, il più importante rap contest italiano, MEI – Meeting degli indipendenti), ha pubblicato tre album – “Indole Indolente” (2009, Funkynerd), “Aria Precaria” (2011, Metarock/Arroyo), Stonato (2016, Funkynerd) – e l’EP “Contro” (2013, La Grande Onda). Ha portato il suo live sui palchi di tutta Italia, e ha collaborato in studio, come rapper o come produttore, con numerosi artisti, fra cui Clementino, Caparezza, Turi, Kiave, Debbit, Kenzie, TheRivati.
Wabi Sabi si apre con “Anni Dieci” (primo singolo estratto), che canta il caos e il clima d’odio che ci circonda, l’ansia da prestazione da social network, il futuro nebuloso della “generazione perduta”, e un grande amore che prova a resistere nonostante tutto. “Stansted” è una corsa contro il tempo che scorre, lasciando i suoi segni, mentre i sogni diventano scatoloni polverosi nascosti in garage, e arriva la consapevolezza di essere cresciuti, di avere vissuto intensamente, e di avere costruito qualcosa con la persona più importante, quella che porta il sole anche quando fuori tutto è grigio. “Wolverine” racconta l’eroico coraggio di chi reagisce dopo la fine di un rapporto. Gli equilibri che si rompono, la complicità svanisce, e non riesci più a essere il supereroe dell’altro, quello che può volare a salvarlo nel momento del bisogno. “Sessanta metri quadri (con vista sulla tangenziale)” è la cartolina di una città annoiata e un po’ snob, vista da un bilocale in una periferia squallida come tante. L’amore che vince sul brutto, sulla noia, sulla paura, ma che non può battere il tempo: fra qualche secolo tutto questo sarà un cumulo di macerie, un reperto archeologico, e nessuno ricorderà come siamo stati noi due, qui dentro. Nella quinta traccia si incontra l’allegoria mitologica di “Icaro”, la metafora esatta con cui rappresentare la paura di crescere, quando gli altri ti spingono a far da parte i sogni e a diventare concreto, perché non si può fare tutto, non si può vivere più di una vita alla volta, non si può volare troppo vicino a quel “sole”, e inizi a capire che l’unico limite a quello che si può fare è il limite che noi stessi mettiamo, un blocco dentro di noi. “Bicchiere mezzo vuoto (freestyle)” ci riporta sul sentiero del rap, uno stream of consciousness senza spazio per un ritornello, per dare sfogo a un’ironica critica della frivolezza che ci circonda, e del suo ostentato ottimismo. Si ripercorre sempre una scia romantica anche con “Temporale”, una canzone d’amore sghemba, come chi la scrive, per una storia bellissima anche se mai tranquilla, come un temporale che scuote tutto ma ripulisce l’aria. Si arriva poi alla title track, “Wabi sabi”, un flusso di memorie avvolte nella malinconia per i sogni che sono stati e non ci sono più, mentre l’età adulta porta a fare i conti con le cicatrici accumulate negli anni. Uno scenario di macerie dell’io, in cui però l’erba ritorna a crescere lentamente, man mano che si fa pace con i partner, con sé stessi e con i propri limiti. La coda strumentale del disco è “Tutto si consuma” che porta gradualmente il suono a una evocativa dissoluzione.