SALENTO – Chi ha avuto il privilegio di nascere e crescere tra le vie di Lecce, oltre ai colori e alle voci, nel suo prezioso bagaglio di esperienze, può vantare il profumo delle botteghe dei maestri cartapestai.
Erano anni in cui si aveva tempo, lo avevano i bambini per curiosare e gli adulti per spiegare, così non era raro che ci si avventurasse alla scoperta di tradizioni e mestieri correndo il rischio della sorpresa, osservando misteriosi strumenti, amorfi stampi, corpi monchi, figure a volte grottesche perché appena abbozzate.
E poi arrivava il profumo, quel profumo di carta, tempere e colla che rapiva i sensi mentre le mani di uno sconosciuto artista creavano la magia, donavano la vita muovendosi come esperte ballerine tra fili di ferro, paglia e gesso.
La “carta pesta”, papier machè per i dizionari inglesi, francesi e tedeschi, trova la sua definizione più accurata in un dizionario edito nel 1830 a Venezia: “carta macerata in acqua e ridotta liquida o in pasta”.
Il connubio perfetto è sempre stato quello tra cartapesta e spiritualità, dagli altari delle chiese, natività, santi e angeli, si sono pian piano concessi come dono perfetto da esporre nelle case, ma col passare del tempo, il gusto si è evoluto in una direzione che strizza l’occhio al profano, creando così un mercato in cui fiori, piante, rappresentazioni della realtà quotidiana, busti di fanciulle e fanciulli, fino a deliziosi monili come orecchini, bracciali e collane, hanno dato una marcia in più ad un prodotto che va incontro al gusto di ogni genere di acquirente.
Uno svecchiamento del classico che dimostra quanto sia importante la flessibilità nel mercato contemporaneo, ma che si presta di contro, ad un acceso dibattito circa l’imbarbarimento di un’arte che i puristi vorrebbero, a ragione, venisse tutelata.
Il rischio è che alla cartapesta leccese tocchi lo stesso destino del vetro di Murano: pezzi unici, realizzati artigianalmente sacrificati sull’altare del consumismo, sostituiti da souvenir in plastica a buon mercato acquistati da turisti ansiosi di portare a casa un po’ di Salento.
Ma alle porte del Natale, ci si può concedere di andare oltre la diatriba per raccontare una storia antica e dai confini incerti, che ha fatto il giro del mondo raccontando a sua volta altre storie.
Il nome di colui che per primo immaginò di poter realizzare delle statue con stracci, paglia e carta, rimarrà un mistero.
Certamente la cartapesta non nasce a Lecce, alcune fonti indicano Napoli come culla di questa tradizione, dove alle maschere utilizzate nei teatri, si avvicendavano statue di Santi e presepi.
Nella aristocratica Lecce la cartapesta ha avuto una vita avventurosa, affascinando non solo i professionisti del settore, ma anche artigiani che nulla avevano a che vedere con l’arte e che in poco tempo divennero un vero e proprio “caso” da studiare: Vittorio Bodini diceva che “la cartapesta è figlia della noia. Basta solo vedere dove è nata, nelle botteghe dei barbieri…” e forse non aveva tutti i torti, perché Lecce è in fondo una città in cui la noia sveglia l’ingegno e non è difficile immaginare i barbieri leccesi che, tra un cliente e l’altro, si destreggiavano nella realizzazione di pupi da mettere in bella mostra nelle loro botteghe.
Bisogna ammettere che diventarono anche bravi, tanto da competere con i Maestri cartapestai, tentando imitarne i lavori.
Il motivo era banale: il vil denaro, perché a quanto pare, realizzare pupi in cartapesta era più remunerativo che tagliare barbe e capelli. Era il 1841, i barbieri pupari erano ormai una realtà consolidata nel leccese e si apriva l’età d’oro della cartapesta, che durò approssimativamente fino al primo decennio del 1900.
In Salento si entra nelle chiese, si ammirano le volte, i transetti, i colonnati possenti e le facciate briose, figlie di un barocco estroso e misterioso, e poi ci si sofferma ai piedi dei Santi e delle Sante, figure in estasi, dalle espressioni serafiche, a volte materne, a volte meditative, che attraversano i secoli, proteggono i fedeli, compiono miracoli celebrati da chi crede, accettati con buona pace della razionalità, in nome della tradizione, da chi non crede.
Le statue in cartapesta sono rappresentazioni talmente perfette, nelle proporzioni e nelle dimensioni, da suscitare l’istinto ad allungare la mano per porgere una carezza, passare le dita tra i drappeggi delle vesti o avvicinarsi all’orecchio per sussurrare una preghiera.
Sono un anello di congiunzione tra il divino e il profano, la rassicurazione che tra le panche delle chiese, mentre raccolti nel proprio dolore o nella propria speranza, si invoca l’intervento di Dio, non si è soli.
Cartapesta e Barocco furono e sono, un’accoppiata vincente, tanto da essere utilizzata già a partire dalla metà del 1500 per realizzare scenografie e addobbi per le cerimonie di una città che, dopo Napoli, risultava essere la meta ideale per le congregazioni religiose.
La presenza di numerosi ordini religiosi tuttavia, non spinse l’artigianato religioso verso la lavorazione di materie nobili come marmo, legno o pietra. Al contrario, gli artigiani sentirono la necessità di aguzzare l’ingegno realizzare le loro opere utilizzando materie di scarto che nelle loro mani venivano nobilitate nel nome dell’arte.
Venivano raccolti vecchi stracci, carta, farina, paglia, acqua, filo di ferro, gesso e si dava inizio alla creazione della statua o del pupo.
Il primo passaggio era la creazione dell’anima: con la paglia venivano realizzati gli arti, il collo, il busto, tenuti insieme tramite il filo di ferro.
Oggi molti utilizzano la colla vinilica, ma i veri artigiani restano ancorati al metodo classico, ovvero acqua e farina mescolate in un pentolino.
La carta, sapientemente strappata e bagnata nella colla, veniva poi lavorata per creare gli abiti e nessun dettaglio veniva lasciato al caso.
Una volta asciugata la cartapesta, veniva fiammeggiata in modo da farle assumere le caratteristiche sfumature del marrone tuttora molto amate da alcuni artisti.
L’idea di colorare la statua invece, era appannaggio dei più facoltosi, perché in assenza di colori artificiali, si ricorreva alla lavorazione di sostanze vegetali o animali.
In genere le statue colorate venivano commissionate da religiosi, gli unici a potersi permettere il finanziamento della creazione di colori come l’azzurro, utilizzato per realizzare il cielo e gli abiti della Madonna e ricavato dal lapislazzulo o dall’azzurrite.
Di più facile reperibilità erano invece i colori caldi, quelli della terra come ocra, giallo e marrone, che infatti si diffusero rapidamente insieme alla polvere ricavata dalle conchiglie sbriciolate che davano brillantezza al pigmento.
Se gli artigiani locali preferirono la cartapesta al marmo o alla pietra per motivi prettamente economici, la chiesa, nelle sue committenze, fece una scelta di utilità: le statue in cartapesta erano leggere, maneggevoli, durature nel tempo e soprattutto erano un catalizzatore per i fedeli.
Fiorirono botteghe e maestranze, molte tuttora attive nel centro storico cittadino, tramandate di padre in figlio (o figlia) e alcuni artisti varcarono i confini dell’Italia per approdare in Inghilterra, dove l’arte della cartapesta era particolarmente apprezzata.
Ma fu nella provincia leccese che vennero realizzate le opere più sorprendenti, come il controsoffitto della Chiesa di Sant’Irene del 1738, probabilmente opera di Mauro Manieri, che andò a sostituire quello in legno.
Lecce ospita anche un Museo della Cartapesta che si trova nel cortile interno del Castello Carlo V, accanto alla Torre Magistra, dove in quelle che un tempo erano le scuderie della guarnigione, sarà possibile camminare nella storia e nella tradizione.
Il legame tra Lecce e la Campania si accentua nel periodo di Natale, in occasione della storica “Fiera di Santa Lucia”, che vede cartapestai professionisti e artisti esporre e vendere le proprie opere in location suggestive come l’antico chiostro dell’Ex Convento dei Celestini o del Castello Carlo V.
Molte sono le opere la cui paternità resta un mistero, ma è doveroso qui ricordare alcuni dei nomi che hanno reso immortale l’arte della cartapesta: Raffaele Caretta, Antonio Maccagnani, Achille De Lucrezi, Antonio Malecore, (attivo fino al 2010, uno dei maestri indiscussi della cartapesta), Angelo Capoccia, Pietro Furgente, Giuseppe Manzo, Cesare Gallucci, Luigi Guacci (che nei primi decenni del 1900 contribuì a dare il via alla produzione industriale delle opere), Mario Di Donfrancesco, Claudio Riso, Rosaria Pallara, Carmelo Gallucci e Stella Ciardo, Maria Arcona Ratta e Antonio De Rinaldis, Marco Epicochi e Stefania Guarasco.
Il primo ad introdurre la tecnica della focheggiatura (la cartapesta bruciacchiata) fu Angelo Capoccia celebre in tutto il mondo per le proprie opere.
Convivono volutamente in questo breve e approssimativo elenco i grandi del passato e i grandi del presente, in nome di un’arte attuale che si rinnova.
di Claudia Forcignanò